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Heidegger e il nazismo 2.0 | Kasparhauser XII
A cura di Marco Baldino



Ermeneutica e politica in Martin Heidegger*
di Julio Quesada Martin

(Traduzione di Maria Giovanna Chiesa e Enrica Losi)

18 novembre 2015


1.
All’inizio degli anni ’40, nel suo corso “La metafisica di Nietzsche” — capitolo IV, dedicato all’Übermensch — Heidegger giunse alla conclusione che la selezione razziale fosse metafisicamente necessaria. In questo modo, il pensiero dell’ultimo grande filosofo tedesco trasformò la selezione razziale in una “principio” [Prinzip] la cui legalità, giustizia o legge aveva una base “metafisica”. Heidegger comprese che l’essenza della volontà di potenza di Nietzsche aveva come origine e meta la formazione di un determinato “tipo” di uomo capace, egli stesso, della massima volontà di potenza in quanto essenza della verità dell’essere [Dasein]. E credette — sulla scorta de L’operaio. Dominio e forma (1922) di Ernst Jünger — che l’essenza della (nuova) verità dell’essere si trovasse in forma pre-ontologica nell’apologia che Nietzsche aveva fatto della “macchinazione” in Umano, troppo umano II (§ 218): ovvero la macchina come maestra della centralizzazione del potere, della disindividuazione dell’uomo, della possibilità di trasformare milioni di esseri in rigorosi e inflessibili automi guidati da “un unico fine”. Questo scopo esistenziale coincide con la Sorge o cura della razza; però non nel suo significato moderno-liberale (biologico), ma metafisico: con il fine cioè di curare il “concetto" di razza. [1]

Per questa ragione e in piena guerra (o “lotta per l’essere”) Heidegger spiegò così ciò che era in gioco:
Rimane da chiedersi quali popoli e quali umanità [Volker und Menschentümer] sottostiano in modo definitivo, e precorrendo, alla legge dell’appartenenza a questo tratto fondamentale dell’incipiente storia del dominio della terra. [2]
Questo è il passaggio concettuale che giustifica una nuova legalità, in vista del nuovo ordinamento mondiale il cui significato e struttura storici dipendono direttamente dalla nozione della razza che forgia la propria volontà di potenza. Heidegger sviluppò questo nuovo concetto di legalità futura, strettamente determinata dalla rivoluzione nazionalsocialista, nella V e ultima parte del Nietzsche. Non è difficile capire – malgrado l’ordinaria cecità degli heideggeriani – la logica interna che unifica il testamento giuridico di Heidegger (Die Gerechtigkeit): “pensare” la giustizia come un’unità metafisica che “forgia” — e “forma” — la legge come “costruzione-eliminazione-annichilimento”. La distruzione del concetto classico di Giustizia, nei suoi diversi significati, è ontologicamente radicale. [3]

Nelle analisi heideggeriane relative all’ermeneutica veritativa, si è spesso insistito sul rapporto temporaneo tra Heidegger e il nazismo e si è sostenuto che, in ultima analisi, l’ontologia di Essere e tempo non aveva niente a che vedere con l’ideologia del nazionalsocialismo — e men che meno con l’olocausto! —, tuttavia è lo stesso Heidegger a smentire queste interpretazioni benpensanti. Il Nietzsches Metaphysik si apre con una Einleitung nella quale l’ex rettore motiva in questi termini la sua interpretazione di Nietzsche:
Il seguente tentativo può essere pensato e seguito in maniera sufficiente solo partendo dall’esperienza fondamentale di Essere e tempo. Essa consiste nel fatto di venire coinvolti – coinvolgimento sempre crescente ma che, forse, in alcuni punti si sta anche decantando – da questo unico accadimento, cioè che nella storia del pensiero metafisico l’essere dell’ente è stato, sì, pensato fin dall’inizio, ma la verità dell’essere in quanto essere è rimasta impensata, e non solo è rifiutata al pensatore quale possibile esperienza, ma il pensiero occidentale in quanto metafisica cela espressamente, anche se non consapevolmente, l’accadimento di questo rifiuto. [4]

2.
Per il giovane Heidegger [5] l’essere della vita si rende visibile o comprensibile solo in forma indiretta. A prima vista sembrerebbe una “riduzione eidetica”; ma l’ermeneutica della situazione consiste nella realizzazione della “propria” esistenza da parte del Dasein umano al margine del λογοϛ, esattamente come l’avrebbe interpretato quella tradizione greco-latina che la fenomenologia, non senza critiche, accetta. Heidegger mostra come la situazione ermeneutica si rende visibile nel momento in cui ci si interroga sull’essere, su chi noi stessi siamo, e nella misura costitutiva in cui abbiamo già accettato la finitezza come parte della sua “risoluzione” di fronte al nulla. In modo tale che si giunge all’inevitabile nel dispiegamento di una nuova “logica radicale dell’origine”: gli archetipi dell’esistenza sono obbligati a scontrarsi, al combattimento più radicale. Ermeneuticamente ciò riceve il nome dissimulato di “contro-movimento” [Gegenbewgung]. [6] Questo ci fa tornare al nostro filo conduttore: l’ermeneutica della situazione chiarisce se stessa come “cura” alla vera elaborazione ermeneutica; ciò non deve essere confuso con l’impegno di una “teoria”. La tendenza verso la “caduta” della “cura” su noi stessi deve essere contro-arrestata da un “contro”, “negazione” o “no” che sia, che si occupi di se stesso in tutta la radicalità ontologica che implica la negazione heideggeriana come forma di autoaffermazione. Questa posizione privilegiata dell’opposizione reale o negazione ontologica (ciò che non è) stimola quello che nel § 9 di Essere e tempo appare nell’analitica del Dasein come la sua vera essenza: “L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere [Zu-sein]”. [7] Devo essere ciò che (ontologicamente) non sono; ragion per cui l’autentico Zu-sein acquisisce il diritto ontologico-culturale (o spirituale) di differenziare l’esistenza umana in “autentica” e “inautentica” (§ 9), per, a posteriori, autodefinire il popolo tedesco come “popolo metafisico” destinato ad assumere il compito della “cura” della Germania, dell’Europa e dell’Occidente (Introduzione alla metafisica, 1935 e 1953). Tanto che ciò accada o non accada.

Questa riduzione dello spazio fenomenologico (ontologicamente e politicamente plurale) al tempo originario, o “Da”, cioè alle vere origini, ha una portata catastrofica che, anche tra i fenomenologi, si continua ad accettare, senza altra analisi critica che quella dell’accondiscendenza condivisa dal gruppo accademico per gli “idoli” della filosofia. Una riduzione al monismo pre-moderno che rende impossibile stendere ponti tra lingue e tra popoli diversi o, più specificatamente, distrugge ogni possibilità di dialogo tra il popolo storico (o metafisico), Germania, e i popoli che, secondo Heidegger, sono privi di essere o di storia, come i popoli neri. Dunque ciò che affermiamo è che queste riduzioni dello spazio plurale al tempo dell’origine, la riduzione delle lingue (adatte per “pensare” [Denken] = adatte per “essere” [Zu-sein]) al greco-tedesco e, più tardi, al puro tedesco (di Heidegger), la riduzione della libertà dell’individuo e della persona in generale al destino storico della comunità del Volk profetizzato dall’ontologo e voluto dal nazista delle SA nei suoi innumerevoli scritti politici — come nel tristemente famoso “Discorso di rettorato”, (L’autoaffermazione dell’Università tedesca, 1933) nel quale distrugge nello stesso tempo la libertà di coscienza e la libertà di insegnamento sull’altare della “uniformazione-dittatoriale-gregaria-nazionalsocialista” [8] —, e per finire, la riduzione della polisemia della parola ‘vita’ agli archetipi dell’esistenza umana, ciò che affermiamo, la nostra tesi, è che che tutte queste “riduzioni” portate a compimento dal “contro-movimento” in nome dell’autentica investigazione filosofica, sono vettori che indicano, nell’opera di Heidegger, un itinerario educativo e politico-universitario legato fin nella sua radice alla logica radicale della provenienza, alla distruzione reale delle persone e delle comunità “improprie”, stabilendo così una buona convergenza fra questo progetto ontologico e il programma del NSDAP che, analogamente, si basa sul razzismo vuoi di carattere biologico, vuoi di carattere culturale o sublimemente metafisico. Queste riduzioni ontologico-ermeneutiche sono ciò che rende possibile ad Heidegger di distruggere il lascito dialettico del πολεμοϛ (guerra) eracliteo sull’altare dell’“annientamento totale” [völligen Vernichtung], così come appare nel saggio Sull’essenza della verità del semestre dell’estate del 1933-34. [9] Il “contro” del contro-movimento annuncia ermeneuticamente nel 1922, di fronte alle tradizioni (che deviano dal cammino dell’essere) greco-giudaica, greco-latina e greco-cristiana, che la negazione ontologica dell’altro era radicale. Senza nemmeno cercare di condividere la tradizione dell’origine greca, ma volendo imporre a livello mondiale la Kehre (svolta) alla vera essenza della verità e dell’essere. Riproposizione possibile unicamente ed esclusivamente nella vera eco dell’essere come frammento dimenticato e nell’attesa della sua rivelazione.

Questa resistenza a condividere le origini greche dell’autentica Kultur finisce per essere la spina dorsale dell’ermeneutica come “Sorge in evoluzione”. Heidegger elabora, dunque, una teoria ontologica all’altezza del suo proprio razzismo, così come si legge in La metafisica di Nietzsche. Ma la selezione razziale dell’uomo, del 1941-42, non si capisce senza il suo fondamento ontologico:
Il contro, inteso come il “no” o la “negazione”, rivela qui un’operazione originariamente e ontologicamente costitutiva. Dal punto di vista del suo significato costitutivo, la negazione possiede un primato originario rispetto alla posizione. [10]
Solo l’ermeneuta della fatticità dell’esser-ci può “comprendere” il significato della parola del suo proprio “ci” [Da] originario; il che lo isola ontologicamente da altre prospettive, se ne esistono altre. Qualche rigo più su della precedente citazione, Heidegger lascia chiaramente intendere che la ricerca del “se stesso” non ha niente a che vedere con “rompersi la testa con riflessioni egocentriche”, alludendo direttamente a Husserl. La supremazia costitutiva del “contro” nell’identità dell’essere respinge la struttura intersoggettiva della percezione del mondo; non c’è percezione ma autoaffermazione della “situazione ermeneutica” o posizione del suo esser-ci come forma “autentica” dell’essere. E questa forma di vedere/essere il mondo taglia alla radice il suo vincolo con l’universalità (progetto fenomenologico), per dividere il mondo e la vita in “autentico” e “inautentico”. Per questo motivo dobbiamo tenere sempre presente che la riduzione dello “spazio” fenomenologico al “tempo” dell’ontologia fondamentale era ed è un’autentica minaccia per la pluralità del mondo. Non si tratta di percepire il mondo prendendo coscienza dello stesso attraverso il nostro inserimento spazio-corporale, che ci dà la possibilità di essere un punto di vista tra altri punti di vista. Al contrario, la “posizione” costitutiva del contro è ciò che permetterebbe di farsi “visibile” come “se stesso”. [11]
Ma questo significa che la possibilità di un’impostazione radicale della problematica ontologica della vita si basa sulla fatticità. [12]
Questa radicalità (fatticità = historisch) fa sì che il pensiero di Heidegger — nella sua stessa costituzione — sia un pensiero razzista, non come conseguenza biologica, ma ermeneutica; sempre e quando la domanda metafisica per antonomasia — Perché l’essere piuttosto che il nulla — si sappia interpretare secondo le sue proprie origini greche e, per questo, per questo “evento”, l’“accadere” dell’essere deve svelarsi nel presente autentico e inautentico mediante la metafisica ripensata ermeneuticamente: Chi siamo noi stessi? A sua volta, il circolo della pre-comprensione è già stato deciso dalla sua storicità; e ciò ci conferma che questa domanda è fuori dal λογοϛ e fuori dall’intenzionalità della coscienza, e, in generale, fuori da ciò che si intende per filosofia. È una domanda senza argomentazione possibile perché solo si ascolta e si risponde attraverso la “risoluzione” [Entscheidung]; in questo modo si “supera” la “soggettività” della storia facendo dell’“autentica esistenza storica” un nucleo così assolutamente solipsistico, come quello dell’essere-per-la-morte, che la finitezza del Dasein, sacrificato alla sua propria finitudine, non ha bisogno di ricorrere a nessun mondo dell’“io”. È questa povertà (devitalizzazione) del suo pensiero ciò che lo fa fallire filosoficamente e precipitare in qualcosa che ha a che vedere con la carne stessa del tessuto storico: la pluralità di contesti è violentata, semplificata o annichilita dalla necessità metafisica della selezione razziale degli uomini sull’altare dell’Übermensch. Sorge (cura dell’essere) e πολεμοϛ (lotta per l’essere) sono le due facce della stessa ermeneutica fenomenologica della storicità la cui identità o “essere” dipendono ontologicamente dalla “negazione” dell’altro. In questa lotta-e-cura-per-l’essere può rimanere un solo contendente o una sola “tradizione” che, facendosi carico biopoliticamente dell’essenza della verità dell’essere, tende a occuparlo tutto, come dimostra — abbiamo visto — la critica di Heidegger della polisemia della parola “vita” e dell’universalità latente nella parola “umanità”.

La logica radicale dell’origine ha trasformato l’intenzionalità della coscienza in Sorge o “intenzionalità piena” dell’“archetipo” dell’esistenza autentica. Questa cura racchiude una geopolitica linguistica che finirà nello sproposito dell’intervista postuma con Der Spiegel; ma questa era solo la punta dell’iceberg biopolitico-comunitario-immunologico, [13] dato che l’ermeneutica deve distruggere le interpretazioni improprie per poter ri-costruire l’archetipo dell’esistenza autentica. Questo compito è biopolitico, in particolare “immunologico”, giacché non si tratta di condividere interpretazioni ma — Chi siamo noi stessi? — di sradicare l’estraneo. Perlomeno come possibilità. Ricordiamoci che ci troviamo già sempre in un determinato stato di fatticità, come sostiene inizialmente l’ermeneutica. Ma la breccia che Heidegger lascia aperta alla tentazione della distruzione radicale del contro-movimento è tanto innegabile quanto terribile: “...e ormai non può essere interamente sradicata [ausgerottet] (corsivo mio)”. [14]

Ma perché dovrebbero essere completamente sradicate le interpretazioni eterogenee dell’essere? Non dovrebbero scattare gli allarmi prima di prendere in considerazione una simile ipotesi? La prova ce la dà proprio Heidegger quando scrive:
La filosofia che si pratica al giorno d’oggi si muove, in gran parte e in modo improprio [uneigentlich], sul terreno della concettualità greca, cioè sul terreno di una concettualizzazione che si è trasmessa attraverso la catena di interpretazioni eterogenee [Interpretationen hindurchgegengen ist]. I concetti fondamentali hanno perso le proprie funzioni espressive originarie [ursprünglichen] e seguono il modello di determinate aree dell’esperienza oggettiva […]. Di conseguenza l’ermeneutica fenomenologica della fatticità nella misura in cui pretende contribuire alla possibilità di un’appropriazione radicale della situazione attuale della filosofia attraverso l’interpretazione – e questo si raggiunge ponendo attenzione sulle categorie concrete già esistenti –, si vede obbligata ad assumersi il compito di disfare lo stato di interpretazione ereditato e dominante, di rendere evidenti i motivi occulti, di svelare le tendenze e le vie d’interpretazione non sempre esplicite e di risalire alle fonti originarie che riconducono ogni spiegazione a una “strategia di smontaggio”. L’ermeneutica, dunque, svolge il suo compito solo attraverso la distruzione [Destruktion]. Il confronto distruttivo con la sua storia non è per la ricerca filosofica un semplice procedimento atto a illustrare come erano le cose un tempo, né incarna il momento di passare in rivista occasionalmente ciò che altri fecero prima, né dà l’occasione di tratteggiare divertenti prospettive sulla storia universale. La distruzione è piuttosto l’unica via attraverso la quale il presente deve andare incontro la sua propria attività fondamentale; e deve farlo in modo tale che dalla storia nasca la domanda costante di fino a che punto si turba il presente stesso a causa dell’appropriazione e dell’interpretazione delle possibilità radicali e fondamentali dell’esperienza. In tal modo progetti della logica radicale dell’origine [eine radikale Ursprunglogik] e i primi contributi all’ontologia si chiariscono in un modo fondamentalmente critico... Ciò che non riusciamo a interpretare ed esprimere in un modo originario [ursprünglich], non lo sappiamo custodire nella sua radicalità [eigentlicher]. [15]
In che misura sarà influenzata la fenomenologia in questa lotta per l’essere? Il “contro-movimento” è la risposta che elabora Heidegger contro la totalità dei presupposti razionali e affettivi che alimentavano la filosofia di Husserl: la trasformazione dell’“intenzionalità” in Sorge è ciò che distrugge il senso realmente filosofico della fenomenologia. [16] L’intenzionalità non è della coscienza della persona che riflette sul mondo, ma del “Da”. È un’intenzionalità che rimbalza su “se stessa” e che, ovviamente, non passa più dal circolo della pre-comprensione dato dalla nuova essenza della verità: la sua “ripetizione”. L’intenzionalità del Dasien è solamente lo specchio della stessa “risoluzione” ontologica della “storicità”. E questa nuova intenzionalità, o intenzionalità “totale” o “completa”, si autoriferisce a se stessa in quanto “cura” dell’autentica origine dell’essere. La critica è chiara e va diretta contro il suo metodo “descrittivo”. [17] Heidegger critica questo metodo per il fatto che non tematizza il proprio punto di osservazione, e le “indicazioni” dell’orientamento di fondo. Ciò è a dire che Heidegger accusa la fenomenologia di non occuparsi del Da ma del sein; perciò considera l’investigazione del maestro “egocentrica”. In altre parole, le Ricerche logiche avevano troppa logica ma mancavano di “suolo” [Boden] per la loro proprie radici o patria. E Heidegger sottolinea questa critica aggiungendo che l’“intenzionalità piena” va cercata nella vera comprensione della storicità che non è altro che “mantenere” il punto di vista che deve essere “curato”. Il contro-movimento dunque raggiunge uno dei suoi punti focali quando l’ermeneuta delle condizioni di possibilità dell’“unità originaria” comprende, finalmente, la “fine” della supremazia filosofica greco-latina e si “accorda” [se compromete] con la nuova verità. Questa, afferma Heidegger, continua a essere una “teoria materiale e formale dell’oggetto della logica e della scienza”. Ma il linguaggio occultava la vera intenzione che non è altro che la distruzione della fenomenologia stessa. Il contro-movimento, di fronte alla caduta nell’oblio della custodia dell’essere, si costituisce ontologicamente, secondo le parole di Heidegger, in strategia di smontaggio; per la qual cosa, come si era detto, l’adempimento dell’ermeneutica si raggiungeva solo attraverso la “distruzione” di ciò che è inautentico. È importante sottolineare che questa distruzione ha il compito di purificare e sradicare le interpretazioni che non derivano dalla vera essenza dell’esistenza storica — nel tedesco di Essere e tempo: “exsistenz” — dei greci mitificati archetipicamente come unico modello di umanità da seguire.

Questa “umanità” non ha più il significato universale, umanistico, che le conferiva il concetto aristotelico di sostanza. La distruzione ermeneutica della “sostanza”, come parte del compito della logica radicale dell’origine della ουσια porta Heidegger ad annullare totalmente la priorità etica dell’azione umana [praxis]; azione che porta con sé la finalità del bene, a differenza della scienza e dell’arte. Così scrive Heidegger:
Tuttavia ουσια conserva nello stesso Aristotele, e anche più tardi, il senso originariamente pratico di beni familiari, di beni patrimoniali, di beni disponibili per essere usati nel mondo circostante. Il termine ουσια indica dunque “beni”, “possesso”, “proprietà”, “attività”. Quello che nello scambio è custodito come essere dell’ente, quello che caratterizza l’ente come beni, possesso, proprietà o attività è il suo esser-prodotto. Nella produzione l’oggetto dello scambio si mostra nel suo vero aspetto. [18]
Suscita attenzione il fatto che tutte le categorie dell’essere qui siano di carattere strumentale e che si definisca la sua sostanza come “esser-prodotto”. Non si tratta quindi né di persone, né di soggettività, ne dell’io, ma piuttosto dell’“esser-disponibile”. Tutte le categorie che appaiono nel Rapporto Natorp derivano dalla sostanza intesa come ποιησιϛ (produzione). “Manipolazione di”, “preparazione di”, “elaborazione di”, “fabbricazione di”, “servirsi di” è il tipo di linguaggio utilizzato qui da Heidegger [19] e che concorda fondamentalmente con le categorie ontologiche di Essere e tempo, dove la “cura” è circoscritta esclusivamente al mondo circostante dell’essere-alla-mano. L’archetipo è un determinato “commercio” con la vita nella quale non entra la soggettività della persona; da qui deriva che il compito distruttivo dell’ermeneutica della fatticità si incentra, nel 1922, nello smontaggio che la tradizione greco-giudaica, greco-latino-cristiana e moderna hanno fatto della vita umana come fondamento universale per lo sviluppo della libertà. [20] Non si tratta di decostruzione, ma di annullamento: “Il confronto distruttivo con la sua storia”. Le trasformazioni di ουσια in “esser-prodotto”, così come la trasformazione dell’intenzionalità [21] della coscienza in Sorge dell’archetipo della vita greco-ariana (nazificazione di Prometeo), apriva ad Heidegger la strada per affermare a Tubinga, il 30 Novembre 1933, L’università nello Stato nazionalsocialista — conferenza nella quale egli viene presentato come “uno dei più ferventi pionieri nazionalsocialisti fra gli eruditi tedeschi” — poiché la rivoluzione nazionalsocialista era la Sorge che avrebbe reso possibile un nuovo “inizio” [Anfang] per la Germania e per tutta la Terra: l’essenza del Dasein Tedesco attuata come essenza dello Stato del Lavoro-Macchina capace di produrre una determinata stirpe di uomini a immagine e somiglianza della volontà di potenza che aspira, metafisicamente, all’Uno. [22]

In questo modo e come conclusione abbiamo chiarito non solo il vincolo tra filosofia e politica in Heidegger, ma anche la relazione metafisica tra l’ontologia e la selezione razziale dell’uomo. Anche il superuomo porta un braccialetto con la croce uncinata, come il conferenziere Heidegger (Hölderlin e l’essenza della poesia) a Roma nel 1936, e il distintivo del partito nel risvolto della giacca. Anche se Zarathustra aveva detto che lì dove “finisce” il Reich, proprio lì si alzano l’arcobaleno e i ponti dell’uomo superiore. E malgrado che Nietzsche avesse rotto con Wagner, tra l’altro, per il suo antisemitismo. [23]


* Conferenza del 7 aprile 2010 al Colloquio internazionale “Heidegger aujourd’hui”, tenutosi nella Maison Heine de Paris.


[1] «L’elemento classico di questo darsi dell’uomo prendendo in mano se stesso consiste nel semplice rigore della semplificazione di tutte le cose e di tutti gli uomini in quell’unica cosa dell’incondizionato conferimento del potere dell’essenza della potenza per il dominio sulla terra. Le condizioni di questo dominio, cioè i valori, vengono posti e prodotti come effetto di una semplice e completa “meccanizzazione” [Machinalisierung] delle cose e mediante l’allevamento dell’uomo. […] L’allevamento [Züchtung] dell’uomo non è però addomesticamento nel senso del contenimento e della paralizzazione della sensibilità, ma la disciplina [Zucht] è l’accumulazione e la purificazione delle forze dell’univocità dell’“automatismo” rigorosamente dominabile di ogni agire. Soltanto dove la soggettività incondizionata della volontà di potenza diventa la verità dell’ente nel suo insieme, è possibile, cioè metafisicamente necessario, il principio [Prinzip] dell’istituzione di un allevamento delle razze [Rassenzüchtung], cioè non una mera formazione spontanea delle razze, ma il consapevole pensiero delle razze [Rassendenken]. Così come la volontà di potenza non è pensata in termini biologici, bensì ontologici, altresì il pensiero delle razze in Nietzsche non ha un senso biologistico, ma metafisico». M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 787 e 788. Questo paragrafo non si trova nell’originale; è un’aggiunta di Heidegger per l’edizione del 1961 sulla quale si sono basate sia la traduzione francese (Gallimard) che la spagnola (Destino). Credo che sia la prima volta che si sottolinei questa “aggiunta”, scoperta che devo in parte all’eccellente lavoro di E. Faye, Heidegger. L’introduzione del nazismo nella filosofia (ed. it. 2012; ed. es. 2009; ed. fr. 2005) che determina un prima e dopo negli studi critici su Heidegger. [NdA]
L’edizione italiana, a cura di Franco Volpi, presenta alcune differenze di traduzione che mostrano come negli anni ’90 il tema di cui si discute qui, almeno in Italia, non fosse all’ordine del giorno, almeno non in modo così imperioso (il che giustifica in parte la sua sottovalutazione da parte degli studiosi heideggeriani formatisi in quegli anni). Il termine Zucht, per es., reso da Volpi con “disciplina”, significa per lo più allevamento, coltura, termine tipico del frasario Blut und Boden, che sottintende una forte componente biologistica, che è poi il significato originario e fondamentale della parola e il più diffuso, il quale, a sua volta, avrebbe prodotto poi il significato astratto di disciplina (cfr. A. D’Onofrio, Razza, sangue e suolo. Utopia della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, ClioPress, Napoli 2007, pp. 102-103). Il traduttore spagnolo ha reso invece Zucht con raza [razza] e Rassenzüchtung con selección racial [selezione razziale]. Nell’edizione Klostermann del 1997: M. Heidegger, Nietzsche, GA 6.2, i passi sono rinvenibili alle pp. 308 e 309. Per evitare fraintendimenti è opportuno chiarire che l’autore si riferisce a M. Heidegger, Nietzsches Metaphysik, GA 50, Klostermann, Frankfurt am Main 1990, mentre noi traiamo le nostre traduzioni dal capitolo VI, volume II, “Nietzsches Metaphysik”, del Nietzsche del 1961 (M. Heidegger, Nietzsche, GA 6.2, Klostermann, Farnkfurt am Main 1997). Detto capitolo riprende il contenuto di un corso del 1940 integrato con parti e soluzioni provenienti dal corso, non tenuto, del semestre invernale 1941/1942, avente lo stesso titolo, il cui testo è stato poi inserito da Heidegger nel vol. 50 della Gesamtausgabe, non tradotto in Italia. I due testi non sono identici. Laddove identici, e per le nostre necessità, si è ripresa la traduzione di Volpi; laddove il testo del 1961 (GA 6.2) non presenta corrispondenze con GA 50, si è proceduto ad una traduzione dallo spagnolo. [NdC]

[2] M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 807. NB – le note prive di ulteriore specifica sono dell’autore.

[3] Ivi, p. 801: « Certo, per pensare l’essenza della giustizia in modo adeguato a questa metafisica, dobbiamo mettere fuori gioco tutte le rappresentazioni sulla giustizia provenienti dalla morale cristiana, umanistica, illuministica, borghese e socialistica».

[4] Ivi, pp. 747-48.

[5] M. Heidegger, “Fenomenologische interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutiscen situation)”, in Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, a cura di G. Neumann, GA 62, Klostermann, Frankfurt am Main 2005. La traduzione spagnola del saggio sulla “situazione ermeneutica”: Interpretaciones fenomenologicas sobre Aristoteles. Indicacion de la situacion hermeneutica, è a cura di J.A. Escudero (Trotta, Madrid, 2002). [NdA]
La traduzione italiana dei passi tratti da questo testo, è stata condotta da Maria Giovanna Chiesa e Enrica Losi sulla base della versione spagnola. Si tratta del cosiddetto Natorp-Bericht (Rapporto-Natorp), lettera di candidatura all’università di Marburgo. Dato per perso, il manoscritto in cui Heidegger compendia la sua interpretazione di Aristotele, è stato ritrovato e pubblicato con il titolo “Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutischen Situation)” e pubblicato originariamente in Dilthey-Jahrbuch, 6, 1989. [NdC]

[6] M. Heidegger, “Interpretaciones fenomenologicas sobre Aristoteles”, cit., pp. 43-44 [GA 62, pp. 360 e 361]. Il testo dice: «El ser de la vida en cuanto tal, accesible en la facticidad misma, es de tal manera que sólo deviene visible y aprehensible indirectamente [Umwege] a través de un contra-movimiento que se opone a la tendencia hacia la caída del cuidado [Sorgen]» («L’essere della vita in quanto tale, accessibile nella fatticità stessa, è tale che solo si rende visibile e comprensibile indirettamente [Umwege] per mezzo di un contro-movimento che si oppone alla tendenza verso la caduta del prendersi cura [Sorgen]). Questa tendenza si trasforma posteriormente nell’“oblio dell’essere”».

[7] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 9, p. 64.

[8] J. Juanes, Los años funestos. Heidegger y el Nacionalsocialismo, Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo/Secretaría de Difusíon Cultural y Extensíon Universitaria, México, 2010, p. 21.

[9] M. Heidegger, Sein und Warheit, GA 36-37, Klostermann, Farnkfurt am Main 2001, pp. 90-91.

[10] M. Heidegger, “Interpretaciones fenomenologicas sobre Aristoteles”, cit., p. 44: «El “contra”, entendido como el “no” o la “negacíon”, expresa aquí una operación originaria y ontológicamente constitutiva. Desde el punto de vista de su sentido constitutivo, la negaciíon posee un primado originario con respecto a la posicíon»; [GA 62, cit., p. 362].

[11] Ivi p. 45 [GA 62, cit., p. 362]. [12] Ibidem: «Pero esto significa que la posibilidad de un planteamiento radical de la problemática ontológica de la vida descansa en la facticidad».

[13] Cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004 e Id., Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, Mimesis, Milano 2008.

[14] M. Heidegger, “Interpretaciones fenomenologicas sobre Aristoteles”, cit., p. 49: «…y que ya no puede ser enteramente erradicado» [GA 62, cit., p. 366]. [15] Ivi, pp. 50-52: «La filosofía que se practica hoy en día se mueve, en gran parte y de manera impropia, en el terreno de la conceptualidad griega, a saber, en el terreno de una conceptualizacíon que se ha transmitido a través de una cadena de interpretaciones heterogéneas. Los conceptos fundamentales han perdido sus funciones expresivas originarias, y que siguen el patrón de determinadas regiones de la experiencia objetiva (...). Por consiguiente, la hermenéutica fenomenológica de la facticidad en la medida en que pretende contribuir a la posibilidad de una apropiación radical de la situación actual de la filosofía por medio de la interpretación ? y esto se lleva a cabo llamando la atención sobre las categorías concretas dadas previamente ?, se ve obligada a asumir la tarea de deshacer el estado de interpretación heredado y dominante, de poner de manifiesto los motivos ocultos, de destapar las tendencias y las vías de interpretación no siempre explicitadas y de remontarse a las fuentes originarias que motivan toda explicación por medio de una estrategia de desmontaje. La hermenéutica, pues, cumple su tarea sólo a través de la destrucción. La investigación filosófica (...) es conocimiento “histórico” en el sentido radical del término. La confrontación destructiva con su historia no es para la investigación filosófica un simple procedimiento destinado a ilustrar cómo eran las cosas antaño, ni encarna el momento de pasar ocasionalmente revista a lo que otros “hicieron” antes, ni brinda la oportunidad de esbozar entretenidas perspectivas acerca de la historia universal. La destrucción es más bien el único camino a través del cuál el presente debe salir al encuentro de su propia actividad fundamental; y debe hacerlo de tal manera que de la historia brote la pregunta constante de hasta qué punto se inquieta el presente mismo por la apropiación y por la interpretación de las posibilidades radicales y fundamentales de la experiencia. Así, los proyectos de una lógica radical del origen y las primeras contribuciones a la ontología se esclarecen de una manera fundamentalmente crítica (…) Aquello que no logramos interpretar y expresar de un modo originario, no sabemos custodiarlo en su autenticidad» [GA 62, cit., pp. 366-69].

[16] Cfr. Ivi, p.47 [GA 62, cit., pp. 364-365].

[17] Cfr. Ivi, p. 48 [GA 62, cit., p. 365].

[18] Ivi, p. 58: «Pero ουσια todavía conserva, en Aristóte!es mismo c incluso más tarde, el sentido originarianiente práctico de bienes familiares, de bienes patrimoniales, de bienes disponibles para el uso en el marco dei mundo circundante. Ei término ουσια designa, pues, «bienes», «posesión», «propiedad», «hacienda». Aquello que en el trato es custodiado como el ser del ente, aquello que caracteriza al ente corno bien, posesión, propiedad o hacienda es su ser-producido. En la producción, el objeto del trato se muestra en su verdadero aspecto» [GA 62, cit., p. 374].

[19] Cfr. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, cit., pp. 352-354.

[20] M. Heidegger, Nietzsches Metaphysik, cit., p. 369.

[21] Ivi, p. 368.

[22] “L’università nello Stato nazional-socialista”, conferenza tenuta a Tubinga il 30 novembre 1933 e pubblicata nel Tüberger Chronik del 1° dicembre 1933, in M. Heidegger, Reden und Andere Zeugnisse eines Lebensweges 1910-1976, a cura di H. Heidegger, GA 16, Klostermann, Frankfurt al Mein 2000, pp. 765 sgg.

[23] «La dove lo Stato finisce, comincia l’uomo che non è superfluo: là comincia il canto della necessità, la melodia unica e insostituibile. Là dove lo Stato finisce – guardate, guardate fratelli! Non vedete l’arcobaleno e i ponti del superuomo [Übermensch]?», in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, Prefazione di Zarathustra, “Del nuovo idolo”, pp. 56-7.


Julio Quesada Martin è titolare della cattedra di Metafísica dell'Università autonoma di Madrid. Oggi ricopre il ruolo di direttore del progetto di ricerca interdisciplinare "Fenomenologia e sociologia del male" presso l'Univesità Veracruzana in Messico. Tra le sue opere: Ontología, Estética y Política en F. Nietzche (1988), Ateísmo difícil. En favor de Occidente (1995), El último filósofo (1977), La belleza y los humillados (Ariel 2001), Heidegger de camino al Holocausto (2008). Di recente pubblicazione è il volume Cultura y barbarie. Racismo y antisemtismo, Biblioteca Nueva, S.L., Madrid 2015.




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